Friday, 7 November 2008

UN AZDORA IN SARONG

Grembiule da cucina cucito a mano con un sarong balinese contemporaneo a disegni neri su sfondo bianco.


Storia personale dell’oggetto

Il mio grembiule da azdora romagnola è in realtà un sarong balinese. O meglio, mio zio lo riportò da Bali a Cesena, e ci spiegò che laggiù lo usavano in diverse occasioni: come indumento da tutti i giorni, come vestito “da festa” o come veste per le cerimonie religiose.
All’epoca io avevo dieci anni e i racconti dello zio mi sembravano delle avventure favolose, quanto mi piaceva starlo ad ascoltare mentre parlava di quei luoghi dai nomi fantasiosi: Bali, Lombok, Sumatra,Giava, Sri Lanka, Nepal.
Ma torniamo al grembiule: per dieci anni venne dimenticato nell’ armadio di mia nonna, insieme a centinaia di migliaia di vecchi scampoli di stoffa che un giorno le sarebbero serviti per confezionare vestaglie, grembiuli, vestitini, tovaglie .
Nel frattempo io mi ero trasferita a Firenze, per frequentare l’Università, e vivevo ormai sola da un paio d’anni quando la nonna mi regalò il grembiule. Ne aveva cuciti due identici, uno per me e l’altro per lei, forse per sentirsi più vicina a me.
Il mio sarong da azdora è un oggetto dal potere fortemente evocativo, mi ricorda la mia infanzia, la mia terra, il riso col latte; ma anche le terre altre che ho visitato con lo zio ( il mio sogno di bambina ), i tanti sarong che ho visto e comprato e i pad thai che ho mangiato.

Agnese

“Albero della vita”, costruito a mano da mio padre nella comunità di recupero di Sofignano (Prato) nel 1994 con fil di ferro intrecciato per le radici, il fusto e i rami e con smalto per i frutti. Alto 10 cm circa.

Questo piccolo oggetto mi fu regalato quando avevo otto anni e in se’ racchiude l’esperienza dolorosa di mio padre, la sua distanza da me e l’affetto che ci lega nonostante tutto. All’epoca non lo vedevo quasi mai, ma un giorno comparì bussando alla porta della mia classe con questo dono meraviglioso, che racchiude in sé l’emozione di quel momento, l’amore, la magia. Magica infatti fu l’intensità di quella comparsa, il cui ricordo mi ha portato ad attribuire un valore speciale a quest’albero: pensavo che rompendo il sottile velo di smalto dei frutti avrei potuto esprimere un desiderio. Un giorno trovai che era rimasto un solo frutto. Mi procurai dello smalto e li ridipinsi. Così ogni volta, rinnovando i frutti, restituivo all’albero il suo potere magico. Il piccolo oggetto porta in sé allora non solo la storia di mio padre e del nostro rapporto, ma anche la storia dei miei desideri di bambina. Conservo ancora il sacchettino di carta in cui si trovava l’albero il giorno in cui mi è stato donato, sul quale è scritto: “L’ALBERO SIMBOLO DELLA VITA. Ogni frutto spero sia il seme della felicità…” .


Localizzazione geografica dell’oggetto

Luogo di origine: comunità di recupero di Sofignano (Prato). Luogo di “scambio”: scuola elementare C.Guasti di Prato. Attuale collocazione: il comodino accanto al letto (in ognuna delle tre case dove ho vissuto, sempre a Prato)

Ipotesi di allestimento


Mi piacerebbe sistemare il piccolo albero su un comodino di legno scuro, il cui cassetto dovrebbe contenere foto del passato e del presente, alcune boccette di smalto e il sacchettino di carta . Mi piacerebbe che lo smalto potesse essere usato per ridipingere i frutti e che ognuno potesse schiacciarne uno per esprimere un desiderio. In questo modo ogni persona potrebbe fare esperienza del “rito” e amplificare il valore dell’oggetto stesso.

Martina

Oggetto:piccolo imbuto per biscotti

Tempo:circa 50 anni
Luogo di provenienza:Caltagirone(CT)
Proprietarie:mia nonna,mia madre e adesso io
Descrizione: si tratta di un piccolo imbuto di alluminio dalla forma conica. La bocca dell’imbuto è dentellata. Si usa per dare forma ai biscotti. Ho trovato l’oggetto nella casa di campagna che da tre generazioni appartiene alla mia famiglia. Appena l’ho ritrovato,rovistando in un cassetto della cucina,mi è tornato in mente l’odore del fumo proveniente dal forno a legna acceso per cuocere i biscotti e il chiacchiericcio delle mie zie occupate nella preparazione. Mi ricordo infatti che erano tante le donne intente nell’opera, che tutte insieme creavano una calda atmosfera di convivialità. I bambini ,me compresa,erano ammessi nella grande cucina a patto che non toccassimo nulla soprattutto l’impasto dei biscotti!. La Casa adesso è disabitata ,il forno non viene più acceso anche perché nessuno è più capace di usarlo con competenza. Nonostante questo la vista di questo oggetto mi ha fatto venire voglia di provare a riusarlo di nuovo. Mi sono cimentata nell’impresa con risultati mediocri. Mi ricordo che la preparazione non richiedeva più di due ore, ma io ho impiegato più del doppio del tempo perché non avevo affatto la manualità. Inoltre ho usato un forno elettrico. Sono stata aiutata la prima volta dalla mia vecchia tata. In quella occasione le ho chiesto se l’imbuto aveva un nome in particolare, mi ha risposto che anticamente lo chiamavano“mutitto”. Ho chiesto il significato della parola dialettale, ma non mi ha saputo rispondere. Io l’ho interpretata “piccolo muto” e ho adotto il nome alla forma dell’oggetto: poiché il cono è aperto alla sommità ed è come se gli mancasse la bocca, non può parlare. In realtà la mia spiegazione non mi convinceva molto. Dopo vari tentativi di paraetimologia ho chiesto delucidazioni a mio padre e gli ho riferito il significato che io avevo dato al termine dialettale. E’ scoppiato in una grossa risata: avevo capito male:non “mutitto”( piccolo muto), ma ‘mbutitto cioè piccolo imbuto. Credo che questa sia la prova di come sia poco familiare per me il dialetto siciliano. La mia ostinazione nell’usare questo piccolo imbuto è invece un tentativo di riavvicinarmi a un mondo che non mi è immediatamente comprensibile.

Thursday, 6 November 2008

Jessica

Si tratta di un quaderno a righe, di quelli utilizzati dai bambini delle scuole elementari (ora primarie). In copertina un’immagine dell’Ateneo di Bucarest, mentre in seconda, terza e quarta di copertina sono segnalate informazioni riguardanti la geografia, usi e costumi, storia e cultura della Romania, completate da una cartina geografica.
Era il quaderno di mio padre, utilizzato come quaderno di lingua italiana quando aveva dieci, anni nel corso dell’anno scolastico ‘64/65.

Storia personale dell’oggetto

Lavoro da qualche anno presso il Museo Guatelli di Ozzano Taro (PR) e nel corso dell’estate 2005, decidemmo di liberare alcuni spazi di casa Guatelli (e più precisamente il garage), per poter così dare inizio ai lavori di predisposizione della nuova aula didattica del museo.

Gli spazi erano stati utilizzati da Ettore Guatelli come momentaneo deposito di scatoloni contenenti riviste, calendari, libri, giornali, quaderni....Tutti rigorosamente pensati secondo una certa logica “monografica” (lo scatolone dei quaderni e i libri della scuola elementare di Gaiano (PR), i giornali per ragazzi, i libri antichi, gli oggetti della famiglia Branduschi.....

Pur rispettando l’ordine dato da Guatelli, fu per me inevitabile aprire tutte quelle scatole, iniziando così a curiosarne i contenuti.

Ad un cero punto mi capitò fra le mani un piccolo quaderno, sulla cui copertina era riportato, in una grafia a me nota, il nome di mio padre. Inizia a sfogliare le pagine del quaderno ma nonostante l’evidenza, non potevo credere che quel “Renato Anelli” fosse proprio mio padre. Sapevo per certo infatti, che Ettore Guatelli non fu mai un suo maestro e nemmeno un suo supplente. Inoltre mio padre non aveva mai conosciuto Guatelli.

Iniziai perciò a sfogliare il quaderno alla ricerca di qualche ulteriore indizio che potesse darmi maggiori ragguagli sull’identità di quel bambino.

Ad un certo punto, circa a metà quaderno lessi: Tema. La mia famiglia. E in quelle due pagine, piene di segni rossi, in un italiano un pò stentato, ritrovai la mia famiglia: mio padre bambino, il nonno Bruno, la nonna Pina, la (bis)nonna Rosina e lo zio Giacomo.

Solo qualche settimana dopo riuscii a ricostruire il perchè della presenza di quel quaderno nella raccolta di Guatelli. Seppi infatti che Guatelli in più occasioni, aveva ritirato da diverse scuole dei dintorni la documentazione relativa alle attività scolastiche svolte nel corso degli anni, tra cui numerosi quaderni degli ex alunni.

Tutto quel materiale non poté tuttavia trovare spazio nell’allestimento degli spazi interni di Guatelli, rimanendo quindi per anni relegato a quella parte definita giacimenti esterni del museo, in attesa di una futura collocazione.

Chiesi il permesso al Direttore del museo affinchè mi permettesse di tenere con me quel quaderno: li dentro non c’era infatti solo mio padre bambino, ma c’era la mia terra raccontata secondo lo sguardo di un bambino degli anni Sessanta (il Carnevale, la stazione e il mercato di Fornovo, le preghiere, l’alternarsi delle stagioni....).

Provenienza: Viazzano (PR)
Percorso: scuola di Viazzano (PR) - Museo Guatelli di Ozzano Taro (PR) – Casa di Jessica a Ozzano Taro (PR)


Albero genealogico
Renato Anelli – Scuola di Viazzano (PR) – Ettore Guatelli e il suo museo – Jessica Anelli

Anabi

Descrizione generale dell’oggetto
Un servizio da the in porcellana (composto da 6 tazzine con piattini, un bricco per il latte e una teiera) realizzato nell’area di cultura indiana dell’Asia. La porcellana è interamente ricoperta all’esterno da una decorazione dipinta a mano, che riproduce tre figure umane (una divinità femminile e presumibilmente due sacerdoti) inserite in motivi floreali e segni grafici. I colori prevalenti sono il marrone, il verde e l’azzurro. Sul fondo di ogni elemento del servizio compare un marchio rosso, un segno grafico senza scritte. È stato acquistato nel 1937.


Storia personale dell’oggetto
Il servizio da the entra nella storia della mia famiglia durante la campagna militare in Africa orientale, alla quale mio padre ha partecipato nel periodo gennaio 1936 – gennaio 1937. Raccontava di averlo acquistato mentre era nel porto di Assab, durante il viaggio di rientro in Italia, per donarlo a sua madre, mia nonna. Non credo sia mai stato usato da lei. Morta la nonna, papà ha acquisito nuovamente il servizio, che è rimasto sempre in casa nostra e sempre senza essere usato.
Il servizio ha attirato la mia attenzione sin da piccola, non solo per la coloritura e le figure umane insolite, ma perché papà non aveva acquistato souvenir durante i lunghi periodi trascorsi all’estero per lavoro in gioventù (era maitre d'hotel) o, se pur l’aveva fatto, non li aveva conservati: uniche tracce di queste sue esperienze tante fotografie e oggetti "maschili" e funzionali quali i primi rasoi elettrici Braun, una macchina fotografica Rolleiflex, penne stilografiche… Si era deciso a comprare questo ricordo diceva perché era in materiale pregevole, la fattura risultava accurata e pensava di incontrare il gusto della madre.
Collegandolo alle fotografie di quel viaggio di ritorno dall'Africa, nelle quali compare un altro soldato intento a provare un kimono e l’atmosfera è esultante per il recente successo bellico italiano, penso che papà abbia voluto consolidare la soddisfazione del rientro in veste da giovane milite vittorioso acquistando un elemento inconfondibile, unico nel suo genere per lui, in grado di segnalare agli altri e di ricordare a lui stesso l’esperienza vissuta. Sicuramente poi l’acquisto è stato sollecitato dall’analogo comportamento di altri soldati: il venditore era uno dei tanti che, a bordo di piccole imbarcazioni, avevano affiancato la nave italiana per proporre mercanzie varie, in particolare prodotti artigianali. Ha inoltre influito anche il gusto per l’esotismo, che la propaganda italiana dell’epoca instillava nei militari e nei civili in riferimento alla terra africana.
Ai miei occhi il servizio è un unicum nelle storie di viaggio di papà e un segno della sua gioventù vissuta in contesti e situazioni assai lontani dal mio presente, pur se noti attraverso letture e studi. Lo considero patrimonio di famiglia per le sue vicende e patrimonio personale per la particolare prospettiva che mi offre sulla vita di papà.


LUOGHI
India
Eritrea
Italia

IPOTESI DI ALLESTIMENTO


Un servizio da the nasce per essere utilizzato in ambito domestico o in attività di ristorazione ed ha una connotazione di genere precisa, femminile: mi piacerebbe mostrare che invece "questo" servizio non ha svolto la sua funzione principale né è stato di esclusiva pertinenza femminile. Lo collocherei impacchettato, ma visibile tra le pieghe della carta, sul fondo ricoperto di paglia di una cassa in legno, a simboleggiare il viaggio principale e gli altri che ha compiuto (la mia famiglia si è stabilita in un luogo diverso da quello dove si trovava mia nonna e l'oggetto ci ha raggiunto). In forma di etichette scriverei sul baule i nomi dell'oggetto nella lingua delle tre nazioni dove si è trovato e inserirei foto e nomi dei membri della mia famiglia che l'hanno avuto in consegna in tempi diversi, me compresa, quali destinatari dell'oggetto e delle sue valenze. Ipotizzerei anche il nome e il volto del commerciante che l'ha venduto al porto di Assab. Sul fondo del baule disporrei mappe delle terre che ha attraversato, riferite al contesto temporale specifico. Infine all'esterno del baule porrei su un tavolino un casco coloniale e un album, con le immagini della campagna militare in Africa orientale di papà.
Mi piacerebbe anche aggiungere un riferimento all'artigiano che l'ha realizzato (sabbia, polvere di colori, pennelli) e alla cultura da cui proviene (immagini di divinità, oggettistica per riti...). E' un contesto che ha causato la nascita del servizio da the e ne ha determinato le caratteristiche, ma che poi non ha più avuto contatti con l'oggetto né è stato argomento di interesse per chi l'ha custodito. Costituisce un patrimonio implicito allo stato potenziale. Forse una performance, anche in video, potrebbe comunicare questa valenza: indiani lo prelevano dalla cassa, ne controllano la fattura, lo inseriscono in un ambiente domestico della cultura di origine simulando l'utilizzo proprio del servizio nel contesto di nascita e infine lo restituiscono al viaggio, ad altri significati, ad altre patrimonializzazioni.

Federica Museo Leone Vercelli

Stele bilingue
Masso erratico con iscrizione incisa in doppia lingua celtica e latina (I secolo a.C.). Il manufatto fu rinvenuto nel 1960 a est di Vercelli, lungo la sponda sinistra del fiume Sesia. Il testo indica che la pietra era una sorta di segnacolo per indicare il confine di un campo sacro, indicato come “comune agli dei e agli uomini”, posta in un luogo imprecisato ad opera di un tale Acisios, non semplice cittadino, ma titolare di una carica pubblica. La presenza della doppia lingua e la menzione di una carica pubblica amministrativa appartenente ancora ad un’organizzazione celtica del territorio costituisce una preziosa testimonianza del processo di integrazione delle popolazioni indigene, che caratterizzò l’occupazione romana di nuovi territori.
Il testo latino recita:
« Finis
campo quem
dedit Acisius
Argantocomater-
ecus Communem
deis et homini-
bus ita ut lapide [s] IIII
statuti sunt »
Confine
al campo che
diede Acisio
Argantocomatereco
Comune
agli dei e agli uomini
così come le quattro pietre
sono state poste

Il testo celtico si presenta come la traduzione nella lingua indigena di quello latino:
Akisios Arkatoko[k]
materekos toso
kote atom teνoχ
tom koneu

Perché la stele bilingue? Almeno 3 sono i motivi
1) Avendo iniziato a lavorare presso la sezione didattica del Museo Leone di Vercelli solo dal mese di marzo del 2007, la mia esperienza all’interno di questo Museo è in continua formazione. Diverse sono le proposte del Museo al pubblico durante l’anno (al di fuori delle attività didattiche per le scuole), per le quali si preparano vari interventi, visite, percorsi e in occasione delle quali “scopro” ogni volta un oggetto o un angolo nuovi del Museo. Lo “scopro” o perché viene prelevato dal buio dei magazzini o perché ci si deve soffermare a studiarne con attenzione i particolari, anche se gli si è passati davanti innumerevoli volte. Quest’anno a Vercelli nel mese di aprile la stele bilingue, conservata al Museo Leone, è stata la protagonista discussa di un convegno internazionale di Studi dal titolo Finem dare Il confine, tra sacro, profano e immaginario. Ed è proprio al suo fianco che la domenica successiva al convegno ho tenuto la mia prima visita guidata ai reperti celtici conservati al Museo Leone. E’ stata per me un’esperienza molto divertente e di cui sono rimasta soddisfatta.
2) La stele, con la sua iscrizione bilingue, si fa portavoce nel I secolo a.C., in un territorio romanizzato, della volontà di una popolazione indigena di mantenere una propria identità. E quale mezzo migliore e duraturo se non quello di “incidere” sulla dura pietra questa identità, nella lingua indigena come traduzione di un testo latino? Sembra un argomento anche molto attuale!
3) Come poter fare lavorare i ragazzi delle scuole attorno e su di lei?, che è testimonianza della presenza di popolazioni celtiche sul territorio vercellese, assieme a diversi reperti in metallo dell’Età del Ferro conservati in museo: frammenti di cinturoni, torques, bracciali, pendagli, fibule, una cista bronzea,frammenti di un tripode…

Claudia


Oggetto: lampada “patchwork” ideata e costruita da mio nonno.
Età: vent’anni circa.
Ubicazione: biblioteca della casa di mio nonno, quartiere Pigneto, Roma.
Descrizione: la lampada è composta da un paralume (in cotone bianco con ricami floreali e legno lavorato a vapore) acquistato vent’anni fa al mercato di Porta Portese ed inserito su una base in ottone ricavata dal vecchio saliscendi di una lampada fine ‘800 assemblato con altri “materiali di risulta” in ottone. La lampada è appesa allo scaffale della libreria tramite un apposito gancio ideato lavorando della latta.



Storia personale dell’oggetto


Mio nonno costruì la lampada venti anni fa, quando si trasferì da Trastevere al Pigneto, e questa sua opera gli piacque così tanto che decise di esporla appendendola alla sua biblioteca.
Scelgo proprio questa lampada (tra l’altro non di mia proprietà) come oggetto d’affezione in primo luogo perché ogni volta che, andando a trovare i miei nonni, la guardavo non potevo fare a meno di ridere.

Ridevo perché la passione di mio nonno nel combinare parti di oggetti ormai inutilizzabili per ideare lampade (una volta ricordo che riuscì a ricavare un lume dalla gamba di una sedia rotta) spesso lo portava a dare alla luce oggetti che non rispondevano ai canoni del “buon gusto” così come possono essere appresi perlustrando i negozi di arredamento disseminati in tutta Italia. Questo aspetto ha sempre scatenato le ire di mia nonna e l’ilarità di tutti gli altri parenti.
Mio nonno dal canto suo è tutt’ora estremamente autoironico, ma al tempo stesso orgoglioso delle sue creazioni e, se debitamente interrogato, le espone come un artista contemporaneo potrebbe promuovere le sue opere.
Ora che abito a casa sua e la sua biblioteca è diventata la mia stanza guardo spesso la lampada e le risate si sono trasformate in un sorriso.
Sorrido perché mi sto affezionando a questo oggetto che illumina la scrivania sulla quale studio tutte le sere. Più lo guardo, più rifletto da un lato sulla frase di mio nonno: “Guarda che solo perché qualcosa è vecchio non vuol dire che sia da buttare, io sono vecchio eppure mica sono da buttare!”; dall’altro sulla post-modernità come coacervo di citazioni che può sembrare non c’entrino nulla l’una con l’altra, ma che sono comunque in grado di dar vita a qualcosa di funzionale e a modo suo bello.
Questa lampada è bella perché mi fa pensare metaforicamente e contemporaneamente al percorso di vita di mio nonno e al mio.

Francesca - Museo Leone Vercelli

Piccole colombe di vetro colorato

Si tratta di contenitori a forma di graziose colombe in vetro, prodotti in età romana (I-II sec. d.C.), soprattutto nella zona della Cisalpina. Le colombe venivano prodotte, con la tecnica della soffiatura libera, dagli abili vetrai romani, utilizzando sia vetro incolore sia vetri colorati (blu, azzurro, verde, giallo ocra…). Mentre il bolo di vetro viene soffiato le abili mani del vetraio lavorano con le pinze, dando vita e forma alla nostra colombina. L’animale può essere reso in maniera più realista o più stilizzata e la produzione varia nelle dimensioni, dalle piccole colombe miniaturistiche a quelle più grandi (una spanna o poco più). Questi oggetti raffinati

venivano utilizzati dalle matrone come contenitori per profumi. La loro particolarità oltre alla forma aggraziata sta nel fatto che le colombine venivano sigillate a caldo; ciò significa che per estrarne il contenuto bisognava necessariamente spezzarne la coda. Molti sono infatti gli esemplari noti giunti a noi con la coda frammentaria.

PUNTO UNO: La scelta

Forse vi domanderete perché un oggetto del museo e non un oggetto più personale.
Ecco un paio di note biografiche: lavoro al Museo Leone da tre anni, nel campo della didattica museale da quasi sette, nell’archeologia da più di dieci, senza contare gli anni di università… ritengo alcuni oggetti archeologici prediletti quasi un’appendice della mia sfera personale. In particolare sento affinità con alcuni di essi, come i reperti in vetro, un materiale delicato, trasparente, lucidissimo che mi affascina e mi attrae per le sue caratteristiche e per la sua capacità di assumere molteplici forme tra le mani esperte del vetraio.
In più lavoro da tanti anni con i ragazzi e mi piace sempre sperimentare ed inventare cose nuove. Vorrei pertanto sfruttare l’opportunità offerta dal seminario per analizzare alcuni oggetti a me cari e scoprire modi diversi per farli parlare ai ragazzi, perché no, magari partendo proprio dall’affezione che si può provare verso un oggetto o dalle sensazioni che anche istintivamente, di getto, il reperto ci può fornire (anche se solo attraverso la vetrina del museo).


PUNTO DUE: cosa significano per me? Cosa possono significare per gli altri?

Da alcuni anni ormai mi occupo di vetro antico, soprattutto romano. E’ importante per me. Da quando frequentavo l’università sono stata affascinata dai reperti vitrei che trovavo strabilianti nelle loro molteplici forme e decorazioni. Quando finalmente ho avuto la possibilità lavorativa di occuparmene è stato come il realizzarsi di un desiderio. E’ stato ed è tutt’ora sempre un’emozione aprire una vetrina e poter toccare un oggetto così fragile ,,, Avevo sempre desiderato farlo!
Negli anni passati mi è capitato di lavorare per diversi musei in Lombardia ed in Piemonte che sono zone di diffusione di questi oggetti. Ho quindi avuto modo di vedere diverse colombine e forse questo è stato un oggetto che mi ha accompagnato nelle mie esperienze lavorative.
Quindi la colomba di vetro è diventata per me un po’ l’oggetto totemico, simbolo della mia professione, di ciò che sono ma anche riassunto della mia storia professionale. E’ un legame con il territorio nel quale ho operato ed è una conferma delle mie ambizioni di universitaria.

Le colombe di vetro racchiudono nella loro delicatezza diversi significati…per me almeno!
Credo che esprimano nella loro fragilità tutto il fascino del mestiere archeologico. Mi spiego: ogni volta che ci si sofferma a guardarle non si può non stupirsi di fronte alla loro integrità, alla loro perfezione stilistica, alla loro gradevolezza, alla loro attualità, all’incredibile serie di circostanze che le hanno condotte intatte fino ai nostri occhi. E’ uno stupirsi ogni volta! E credo che in questo stupore si condensi il fascino del fare l’archeologo, la gioia e l’emozione di portare in luce testimonianze antiche e preziose (anche se purtroppo non capita tutti i giorni!). Credo inoltre che chiunque osservi le colombine possa stupirsene e di conseguenza possa provare anche solo per un attimo le emozioni di un archeologo al momento della scoperta.
Trovo che le piccole e fragili colombe esprimano nella loro raffinatezza la grandiosità della civiltà romana. Grandiosità intesa non tanto come potenza ma come grande abilità, grande tecnica, grande inventiva. Artigiani abilissimi e tecnicamente avanzati che davano vita ad oggetti (non soltanto per quanto riguarda il vetro) di gusto squisitamente attuale e in forme assolutamente moderne, in una sorta di continuità con il contemporaneo.
E poi le colombe ci permettono di entrare nella frivolezza sempre attuale della cosmesi e della bellezza femminile. Non credo esista donna che non rimanga affascinata davanti ad un grazioso contenitore per profumi che ha più di 2000 anni…
Infine nell’immaginario collettivo contemporaneo la colomba è simbolo di pace, di libertà, di amore, offre insomma moltissimi spunti di riflessione.

PUNTO TRE: L’allestimento

Le colombe vitree del Museo Leone di Vercelli trovano collocazione all’interno di una vetrina interamente dedicata a reperti vitrei romani. Oltre alle colombine vi si trovano balsamari dalle fogge varie, bastoncini per mescolare polveri cosmetiche, bottiglie, coppe, urne…


Giuseppe

SCHEDA DESCRITTIVA

( Relativa al manufatto in basso a sinistra della fotografia n° 1. )

Il materiale con cui è costruito il manufatto è la parte apicale di una palma da datteri;

Il taglio e la lavorazione sono stati effettuati tra il febbraio e l’aprile 1977 nel paese di Codrongianos, 15 km a sud di Sassari, Sardegna, per la Domenica delle Palme.

Il nome del manufatto, in Sardo è Sa pramma, la palma;

Misura complessiva della palma intrecciata:
· altezza cm 53;
· gambo nudo cm 6;
· numero totale delle figure: 12;
di cui:

1 ) Sa fozza, la foglia: totale 5 figure;
2 ) Sa murighessa, la mora: totale 4 figure;
3 ) S’iskala ‘e su sorighe, la scala del topo: totale 3 figure.
4 ) Gruppi di foglie sciolte tagliate a varie misure: 5 per il lato sinistro; 8 per il lato destro
fotografia numero 1.
Storia personale dell’oggetto

Il mio oggetto d’affezione è la mia memoria.
Indubbiamente individuale perché mia, ma anche collettiva perché parte della memoria della mia comunità. Individuale e soggettiva ma anche collettiva e condivisa, quindi.

Ma come fare per “portare” la memoria?
Come fare per riprodurre i ricordi?

Eppure, nel nostro lavoro, ci troviamo spesso a dover documentare i ricordi, la memoria di altre persone che ci parlano della loro vita, del passato, della loro esperienza…

Come si può rappresentare un colore; il colore di una sera o di una mattina dell’estate o dell’inverno; un odore di una certa zona di montagna o di mare? Come si può rappresentare “l’aria di casa mia”?

Anche i luoghi sono “Oggetti d’affezione”: una strada, una casa, una piazza o una via… Un punto panoramico e il suo panorama…

Il Tempo… Anche il Tempo è un “Oggetto d’affezione”; il Tempo con dentro tanti altri tempi: il tempo dell’infanzia, il tempo dell’adolescenza, delle scuole, del lavoro, della festa, del lutto…

E così mentre cerco, nel mio personale baule della memoria un oggetto d’affezione, l’Oggetto d’affezione, mi accorgo che è la mia stessa memoria l’oggetto d’affezione che contiene tutti gli altri oggetti.

E così da questo baule tiro fuori una sera di fine estate di molti anni fa ed un film visto quella sera… con i suoi odori, i suoi colori, il suo spazio e il suo tempo.

Tiro fuori un vecchio manufatto, una palma intrecciata per la Domenica delle Palme, che ha in se tutto: odori, colori, ricordi e memoria di un Tempo e di un Luogo.

Memoria e ricordo di più persone; individuale (perché mio, quindi soggettivo) e collettivo (perché anche di altri), materiale e immateriale allo stesso tempo.
Ipotesi di allestimento

L’oggetto, considerato nella sua valenza simbolica, è legato alla Settimana Santa e ai riti connessi; da questa considerazione si può partire per pensare un’ipotesi di allestimento che può vedere il manufatto inserito in una situazione pseudo religiosa, attuabile con la ricostruzione, reale o digitale di un ambiente chiesastico.
L’altro lato del significato lo vede protagonista della vita laica, in cui la comunità partecipa alla vita religiosa portando il suo contributo sotto forma di tecniche e conoscenze che producono un oggetto materiale denso di significati simbolici. In questa seconda ipotesi l’allestimento potrebbe simulare, o potrebbe essere, un laboratorio artigianale in cui l’oggetto stesso viene materialmente costruito e ri-costruito, portando in quest’ultimo caso, l’esposizione fuori dal contenitore (museo, mostra, o altro) e dentro i luoghi della comunità.

Letizia


Croce di legno, ricavata dal tronco di un albero di gelso. Il legno ha circa 60 anni ma ha assunto l’attuale forma di croce solo 3 anni fa.
Provenienza: Polignano a Mare (Bari), via Palmiro Togliatti - 24, giardino di casa.
Posizione attuale: Belluno , Via dei Molini -7, sala da pranzo della mia nuova casa.

Dai ricordi tramandatimi da mio padre, fu mio nonno a piantare l’albero di gelso, circa 60 anni fa, nell’appezzamento di terreno coltivato a conduzione famigliare. L’albero era posizionato di fronte a due abitazioni rurali (le torrette) e tutto intorno si estendeva il terreno per circa un ettaro . Le torrette erano la residenza estiva dove la famiglia di mio nonno (mia nonna, mio padre e tre sorelle), si trasferiva dal mese di aprile fino al primo novembre, per poi ritornare all’abitazione principale, nel centro del paese a raccolto concluso.
Nei piani del nonno, una volta cresciuto, il Gelso sarebbe servito a riparare la casa dai raggi del sole e dare un po’ di frescura nei caldi pomeriggi estivi. Sotto il Gelso la famiglia si riuniva per preparare le conserve che sarebbero servite per l’inverno, per fare la salsa, i pomodori secchi, i fichi secchi con le mandorle, e sistemare nelle cassette le verdure appena raccolte da portare al mercato ortofrutticolo.
Negli anni Ottanta il terreno fu espropriato per dare spazio all’edilizia popolare. Le torrette divennero la casa dove nacqui nel 1980. Di quella campagna rimaneva solo il Gelso ma la sua funzione era sempre la stessa, in estate ci riparava dal calore e, come una volta, la famiglia si riuniva alla sua ombra per pranzare. Chissà quante storie aveva da raccontare quell’albero; con i miei cugini giocavamo ad arrampicarci; mio padre appese ai suoi rami un altalena; dopo Pasqua, con gli incarti delle uova e con i teneri e flessibili ramoscelli dell’albero mio nonno costruiva gli aquiloni. E poi vi erano i suoi frutti, bianchi e dolci. Ogni anno, nel mese di giugno, si faceva la raccolta. Mio nonno aveva sospeso delle reti affinché il frutto non cadesse per terra mentre scuoteva i rami con un lungo uncino di legno. Poi si vendevano al mercato o alle gelaterie. I frutti erano pregiatissimi e si guadagnava abbastanza bene. Fu merito della raccolta dell’89 se entrò in casa mia il primo televisore a colori (680 mila lire). Purtroppo il 1989 è anche ricordato per la morte del nonno.
Pian piano tutta la città si andava espandendo verso la periferia e di terreni e giardini intorno alla mia casa non ve ne erano ormai più. Rimaneva solo il Gelso e la sua altalena spinta dal vento a testimoniare la storia di una semplice famiglia del Sud... fino a quando anche mio padre decise di costruire una palazzina proprio lì dove cresceva l’albero. Il Gelso non poteva più stare lì. Fu sradicato ma a ricordo delle famiglie cresciute alla sua ombra, dei giochi e della coesione che si creava intorno a “lui” mio padre ha fatto ricavare dal tronco 4 croci stilizzate che ha regalato a me e ai miei fratelli.
Adesso che sono sposata e vivo a Belluno ho portato questo ricordo nel salone della mia nuova casa. Non posso più affacciarmi al balcone e guardare i suoi rami al vento o le sue foglie illuminate dal sole ma posso ancora vederlo. E ricordare.
Localizzazione geografica dell’oggetto
Via Palmiro Togliatti, 24. Polignano a Mare, Ba
Via dei Molini, 7. Belluno, Bl

Ipotesi di allestimento
L’oggetto d’affezione presentato è uno scrigno vivo, come vivi sono i ricordi che custodisce. È vivo perché è in grado di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente che lo circonda adeguando la sua forma. L’albero che custodiva i ricordi di famiglia del secondo dopoguerra è, negli anni, diventato un manufatto arricchito dei ricordi della mia infanzia. Ciò che voglio esprimere con il suo allestimento è il senso del mutare dei tempi e
delle forme nonché il tramandare i ricordi (l’immateriale) attraverso la materia. Tutto ciò crea un tendere al futuro e quindi un’aspettativa di ottimismo. Il significato universale intrinseco della croce darebbe, però, all’allestimento una sensazione sinistra che entrerebbe in conflitto con ciò che per me essa rappresenta.
L’ipotesi di allestimento da me progettata prevede una serie di tre fotogrammi. Il primo ritrae una campagna dall’orizzonte libero, in bianco e nero; al centro si erge il Gelso, unico particolare a colori. Il secondo fotogramma ritrae un’area urbanizzata, a colori, con al centro un cortile in cui il Gelso, questa volta, è presentato in bianco e nero. Il terzo fotogramma consiste in un primo piano delle mani di un uomo anziano che porgono il crocifisso alle mani tese di una persona giovane; l’intero fotogramma è in bianco e nero, in dimensioni reali e al crocifisso fotografato viene sovrapposto quello reale con i suoi colori e plasticità.
In questa sequenza il gioco cromatico assume fondamentale importanza perché gli scatti si intendono eseguiti nei momenti in cui il cambiamento è imminente: il bianco e nero rappresenta ciò che sta svanendo, il colore identifica ciò che è attuale. Il Gelso, nelle sue mutevoli forme, è la costante della memoria.

Alessandra Micoli

Il mio oggetto d’affezione

A dire la verità non mi è venuto in mente subito. Dopo aver letto le istruzioni del workshop ho dovuto pensarci un po’, la mente vagava tra oggetti e ricordi, ma pendendo per lo più verso ricordi molto intimi, e forse poco ascrivibili nella categoria.
Poi è apparso.
“Il giovane Holden” ha fatto ingresso nella mia vita nel Natale 1998.
Avevamo da poco traslocato a Milano centro, prima abitavo a Milano 2. Oltre ad aver lasciato la casa in cui più o meno avevo vissuto la mia infanzia, dovevo anche cambiare scuola, così, tra la seconda e la terza media, con tutti gli sconvolgimenti che ne conseguono, io ancora così timida, l’idea di una classe nuova, a Milano.
Lì, alle medie Parini, ancora in via Goito, all’epoca, ho conosciuto Valentina, che è poi diventata la mia “migliore amica”, poi testimone di nozze, presenza costante e confortante. Ed è Valentina che me lo regalò, il primo dei tanti regali da lei ricevuti. La dedica è forse il primo oggetto all’interno di questo oggetto, che mi riporta indietro nel tempo e nei sentimenti. I morsi del gatto negli angoli della copertina potrebbero forse essere il secondo.
Questo libro, dalla prima lettura che mi ha fatto ridere a crepapelle, mi ha poi accompagnato nella mia vita, solo materialmente ed immaterialmente.
L’ho fatto leggere a mia madre, contagiando anche lei con la passione che era in me nata per questo personaggio con cui riusciva al contempo facile e difficile immedesimarsi.
Poi è stato uno dei libri che la mia prof di italiano del ginnasio, molto poco tradizionale, ci ha fatto leggere. E la copia che conservo riporta ancora i commenti a matita fatti sullo stile letterario di Salinger, perché la prof era molto in gamba e quindi la lettura non era così tanto per leggere qualche cosa di poco tradizionale, ma per analizzare un testo letterario, lo stile, le idee.
E così l’ho letto una seconda volta.
Mi capitava poi spesso di riprenderlo in mano, perché davvero questo libro aveva la capacità di ridarmi il buon umore se ero giù di corda, o semplicemente aveva la capacità di trasportarmi altrove, farmi pensare e ridere, o magari anche piangere. Ne ho comprato la traduzione inglese, perché ormai quasi lo sapevo a memoria ed ero in grado di capire le altrimenti incomprensibili espressioni utilizzate. E questo secondo libro diventa l’appendice del mio oggetto d’affezione, perché oggetto gemello ma anch’esso con una sua piccola storia autonoma.
Quando mi sono trasferita a Siena per l’Università ovviamente l’ho portato con me, ed è così iniziata la sua transumanza. Ad ogni spostamento un po’ lungo, era una delle cose che mettevo in valigia o negli scatoloni.
Il libro è quindi stato a Marsiglia, per ben due volte, vi ha prima fatto un erasmus e quindi la ricerca sul campo per la tesi.
Nel corso del primo viaggio marsigliese il gemello inglese del mio oggetto, il “The catcher in the rye”, ha preso un’altra strada. L’ho dapprima fatto leggere ad un amico franco-americano, che tanto mi ricordava Holden. Appurato di condividere la stessa passione, decisi alla mia partenza di regalargli la parte di me racchiusa nel libro.
L’Holden italiano mi ha poi seguita di nuovo a Milano, poi a Londra, dove si è ricongiunto con una nuova copia gemella inglese (ma diversa edizione), poi di nuovo a Milano, nelle diverse case che ho abitato, quella di mia mamma, quella di via Moretto da Brescia con Giovanni, quella di via Bazzini dove aveva vissuto mia nonna, quella dove abito ora, a Melzo, con mio marito. Il quale, ovviamente, ha letto anch’egli il mio libro d’affezione.



L’oggetto d’affezione, con dedica di Valentina















Il gemello inglese

In cima alla pagina: I commenti a margine, in classe al ginnasio





Claudia

L’oggetto scelto è un video fotografico, il mio primo video fotografico, realizzato nel 2004 a Sassari.È un dvd fatto con il programma Pinnacle, in cui ho inserito una serie di fotografie mie personali e di mia cugina, con la quale sono cresciuta. Il video è accompagnato da una serie di musiche.

Questo video è nato in un momento molto particolare della mia vita, in quanto avevo necessità di riavvicinarmi a una persona che pensavo stessi allontanando. Una persona con cui sono cresciuta e con la quale ho condiviso gran parte della mia vita e delle mie emozioni. Una persona che mi è sempre stata vicina, che mi ha sempre ascoltata. Più di un’amica, più di una cugina, ma entrambe le cose, che racchiudono l’amore per la famiglia, e l’amore per l’amicizia. Le scelte di vita che abbiamo fatto ci hanno portato, ad un certo punto, a dividerci raffreddando un po’ il nostro meraviglioso rapporto. Ma entrambe sapevamo che ci mancava una parte di noi. Così un giorno mentre guardavo le mie foto d’ infanzia, mi è venuta un ‘idea. Ho cercato di scegliere le più significative, quelle che mi facevano venire i “lucciconi” agli occhi, e quelle che mi facevano sorridere. Questi momenti li ho racchiusi, in quello che per me, era un cofanetto di ricordi. Ricordi che dovevano essere nostri e da condividere.
Era un periodo in cui stavo imparando a usare un programma di video montaggio, così ho pensato che quello poteva essere il modo migliore per conservare meglio quei momenti e per poterli condividere con lei. Inoltre ero contenta che la mia prima esperienza di video montaggio fosse per una persona a cui tenevo tantissimo. Giorno per giorno mi trovavo davanti a fotografie bellissime, ma il momento più bello è stato quando insieme ne abbiamo visto il risultato. È come se si fosse riaperta una porta, forse è stata la porta, grazie alla quale ancora oggi siamo così vicine e attaccate. È stato un momento bellissimo. Abbiamo pianto e ci siamo abbracciate scambiandoci emozioni e pensieri. È bello vedere cosa possono fare delle semplici foto!!

Elena Negro



Oggetto: quaderno di appunti con esterno in pelle
Dimensioni: 21x15x3

In questo quaderno annoto le ricette di cucina che raccolgo quando vado a cena da amici o quando mi riesce particolarmente bene un piatto che riscuote successo.
Il suo posto è in cucina, sopra la cappa, affianco ai libri di ricette, quelli stampati.
Me lo ha regalato mia madre ancora quando studiavo e per lungo tempo l’ho conservato integro aspettando di trovargli la giusta destinazione. E’ uno di quei regali simbolici che mia madre mi fa di tanto in tanto, ai quali io attribuisco un valore affettivo particolare e metto spesso in relazione con dei momenti significativi della mia vita.
All’epoca avevo già altri quaderni di cucina, più di uno, risultato di assemblaggi confusi di fogli volanti, appunti e ritagli di giornale con ricette che mi avevano incuriosito o che avevo raccolto durante i soggiorni di studio all’estero. Una sorta di diario del palato.
Ho iniziato questo quaderno quando ho svuotato le valige e messo radici. Allora mi sono trovata a spulciare tra le ricette che possedevo e, come se stessi facendo ordine nell’armadio, ho scelto quelle che più mi stavano a cuore. Alla fine ho trascritto solo quelle ricette che mi ricordano qualcuno -come il Biancomangiare che mi hanno insegnato ad apprezzare le mie amiche siciliane o gli gnocchi di zucca che ho imparato a fare un una mia cara amica dell’università – o qualche episodio particolare -come la Coppa joyeux noël che ho assaggiato in una gelateria di Arles in un viaggio indimenticabile. In questa azione di riordino dei ricordi mi sono trovata in mano un appunto di mia nonna con una ricetta per le frittelle. Non me ne ha mai fatte di frittelle mia nonna. Nell’indecisione tra buttare o trascrivere l’appunto ora quel mezzo foglio di quaderno a quadretti che sa di elementare è fissato all’inizio del quaderno con una graffetta e ne è diventato parte integrante.
Mettere ordine al quaderno di cucina è stato mettere ordine nella vita, nei ricordi, ma anche operare una selezione nel presente perché tuttora trascrivo solo quelle ricette che ritengo meritino una pagina. Nel tempo ho collezionato ricette, aggiungo varianti che sperimento quando cucino, indico con attenzione passaggi anche già noti e acquisiti, rendendomi sempre più conto che questo quaderno non è per me un semplice repertorio di schede culinarie, ma un filo rosso tra generazioni. Generazioni di donne, che nella mia mente si tramandano le conoscenze di una formula della felicità che passa attraverso l’impastare e lo stare insieme, il creare e il piacere del palato.
In questo ordine simbolico del cibo ci sono però delle contraddizioni che permangono e che tuttavia vi appartengono pienamente; che appartengono pienamente alla mia vita: in primis, l’impastatore per eccellenza è mio padre e non mia madre o mia nonna. Lui da anni non compra più il pane ma lo fa nel forno di casa e nei ricordi d’infanzia l’immagine che ho della festa si associa a quella delle sue braccia, grosse e forti, che impastano la pizza o le tagliatelle all’uovo sul tavolo di cucina. E poi cucino e scrivo pensando a mia figlia, a mio marito, agli amici, ma non mi considero una cuoca. Apro il mio quaderno per fare un regalo e mi concentro sulla sperimentazione più che sul risultato. Dell’arte culinaria mi piace praticare più la dimensione sociale e affettiva che quella alimentare e ho sempre associato la cucina alla mia capacità creativa e pro-creativa.

Saturday, 1 November 2008

Oggetti d’affezione, dal capitolo omonimo de Il terzo principio della museografia (P.Clemente e E.Rossi, Carocci, Roma, 1999) è un tipo di laboratorio didattico che prevede che – attraverso gli oggetti scelti dai partecipanti– siano messe in evidenza relazioni antropologiche sia entro gli oggetti scelti, sia tra gli oggetti scelti dai membri del gruppo.

Le relazioni messe in evidenza rendono visibili possibili immaginazioni di allestimenti singolari e d’insieme degli oggetti, centrati su una museografia del contemporaneo, che attualizza la memoria delle relazioni, il simbolismo degli oggetti, le potenze del dono, la ‘domesticazione e personalizzazione’ degli oggetti seriali del mondo della produzione di massa, il ruolo e i rapporti tra le generazioni. Accendini, peluche, orologi, penne, canzoni, parole, diventano nodi di reti di relazioni dotate di forza riflessiva: aiutano a conoscere noi stessi e a riflettere sulla vita quotidiana contemporanea.

Nel workshop, sulla base degli oggetti scelti e delle relazioni indicate, si svolgerà sia un lavoro di narrazione delle cose, sia un lavoro di connessione di esse in ipotesi di interpretazione e di allestimento. L’espressione ‘oggetti di affezione’ è presa in prestito da un volume di Man Ray (Obiects of my affections).

Le schede degli oggetti, che verranno inserite nel blog nei giorni prima del workshop, contengono una parte descrittiva ed una parte narrativa e illustrativa delle relazioni implicate.

Parte descrittiva

Tre diversi esempi:
1. Oggetto: braccialetto identificativo di stoffa verde.
Luogo di provenienza: Sopot (Polonia), braccialetto di stoffa verde da indossare per avere libero accesso all’ area di un mega concerto e relativo camping in Polonia nel luglio 2006

2. -Scheda tecnica: Tipo: chitarra spagnola di legno
Tempo: 35 anni aprossimadamente
Marca: Contreras
Propietarie: Adesso io stessa, prima mia mamma e mia zia

3. Si tratta di un portamine della “Rotring”, una casa tedesca, di Amburgo, che fabbrica penne e matite sin dal 1928; il modello è abbastanza vecchio e non si trova più in commercio, se non nella sua forma successiva, leggermente diversa, che ha il nome Tikky II. La matita tradizionale risale al XVI secolo, mentre il portamine è stato inventato più recentemente ed ha il vantaggio di non dover usare il temperino per avere sempre appuntita la mina, generalmente di grafite.

Parte narrativa
La parte narrativa può essere connessa con quella descrittiva come nel caso appena accennato, che continua così: Circa dieci anni fa, nel 1998, mi fu regalato da mia madre un portamine di colore rosso scuro, con la punta metallica di 0.5 mm di diametro e un cerchietto rosso sull’impugnatura, rappresentate la marca (Rotring in tedesco significa anello rosso); o può essere separata come nel caso che segue (esempio della chitarra) : Il mio nonno si trasferì a Parigi negli anni ’70 perchè era un militare attivo e doveva prendere posto in Francia come aggiunto militare. Mia mamma quindi, con piú pena che gioia, aveva il desiderio di ricordare Madrid, e con quella sua musica. Dopo un anno in vacanza li, si era fatta l’idea di comprare una chitarra, raccoglie soldi e con una delle sue sorelle ne compra una per portarla a Parigi.

L’oggetto viene raccontato nelle sue storie di ‘fondazione’, relazioni, implicazioni affettive, genealogiche, donative, evocative.

Documentazione necessaria
Se l’oggetto si connette con reti di parentela o di amicizia o di amore è utile anche una specificazione delle relazioni , dei legami che caratterizzano il mondo di affezione degli oggetti, anche con un piccolo albero genealogico, ad esempio.
E’ utile una ‘immagine’ dell’oggetto, o fotografato, o scannerizzato, o trascritto, o disegnato ( o un file audio o un video). Se si tratta di oggetti portatili è importante portarli nello workshop dove cerchiamo di mettere a disposizione dei supporti espositivi temporanei.

Come si articola il workshop
In genere il workshop comincia con una mia narrazione di un oggetto d’affezione e quindi con varie altre narrazioni di oggetti, la presenza di una lavagna consente di indicare legami, genealogie, mappe.
In genere scelgo un oggetto d’affezione genealogico: l’orologio che mia madre donò a mio padre per il fidanzamento e che poi fu donato a me alla morte di mio padre, e che guastai salvando mia figlia in mare. E’ un oggetto molto ricco di valenze che però orienta troppo gli altri verso oggetti genealogici. Tra i giovani dei miei seminari spesso compaiono accendini donati da amici, diari legati ad amicizie scolastiche, oggetti di attività sportive o artistiche dell’adolescenza, peluche legati a fasi della vita. Non abbiamo mai usato ‘oggetti immateriali’ ma è tempo di cominciare, e quindi sono ben accette canzoni, frasi, messaggi o altro.Un oggetto che potrei scegliere non genealogico è un pezzo di carbone che è legato da un lato alla Sardegna, ai musei, al mio passato e dall’altro a una collega da poco scomparsa. In questo caso non è solo ‘quel’ pezzo di carbone ma ogni possibile pezzo di carbone a poter avere significato. Credo che a Milano comincerò da questo.

Le schede citate sono diverse tra loro, ma danno l’idea del lavoro laboratoriale, qualcuna contiene anche ipotesi di allestimento.Sulla base delle vostre schede e delle vostre presenze, cercheremo di fare ipotesi interpretative e allestitive degli oggetti come pratica di expografie sia autobiografica che ‘della contemporeneità’.

Pietro Clemente